Non ricordo nemmeno il suo nome, mi pare lo chiamassero Beppe, ma non ci giurerei, perché ero piccolissimo quando passavo davanti alla sua carrozzeria in piazza Edison. E quando ero piccolissimo io, era la metà degli anni ’80 e in piazza Edison c’era il lattaio, il macellaio, l’alimentari coi gelati della Motta, il barbiere. E me li ricordo più o meno tutti, perché da tutti andavo a fare la spesa per mia mamma. Solo da Beppe non andavo, ma quando ci passavo davanti, mioddio che meraviglia.
Martellate, sverniciate, carta vetrata, Peroni, bestemmie, stucco e sigarette. E lui che era basso e con un forte accento di qualche sud che non saprei ben collocare tra Basilicata e Campania. A volte d’estate aveva solo la salopette addosso e sotto il petto peloso e le braccia muscolose, il viso e i capelli completamente ricoperti di polvere e vernice, in bocca una sigaretta e le mani sui fianchi mentre guardava l’ennesima carcassa d’auto da sistemare. Una Renault 4 o 5, magari una Fiat 127, un’Alfasud o magari una Y10.
Giudice spietato, un Minosse senza coda. Mi fermavo a guardarlo, ipnotizzato, col sacchetto della spesa penzoloni dalla mano, e cercavo d’indovinare la condanna che sarebbe toccata alla disgraziata. Se la sentenza diceva martello, allora l’esecuzione partiva tipicamente con una raffica rabbiosa. Pugilistica. Il cicchino sempre in bocca e magari una bestemmia d’incoraggiamento. E anche io tifavo per lui, senza bestemmiare ovviamente.
Altre volte invece toccava allo stucco e la faccenda non è che fosse meno fisica. Ché lo stucco lo tirava letteralmente a palettate. Certo poi andava più leggero nello stenderlo, ma poi scartavetrava con una foga che se Daniel San dava e toglieva la cera in quel modo, col cazzo che quelli del Cobra Kai gli rompevano le palle.
E io stavo lì.
Finché alla fine non si girava accorgendosi che lo guardavo. E allora, inevitabilmente fuggivo.